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La Cappella Sansevero: il Principe, le ancelle e gli scatti proibiti

Il periodo natalizio vede comitive di turisti che si recano nel centro storico di Napoli per ammirare le produzioni di bravi ed esperti artigiani. In via San Gregorio Armeno, strada ormai famosa in tutto il mondo, accanto alle classiche opere sacre, sono esposte creazioni profane, raffiguranti protagonisti della politica, dello sport e dello spettacolo, destinate ad adornare o completare i presepi di molte famiglie. Quasi per caso, tra i vicoli della città vecchia, ci s’imbatte in un edificio, dove si possono ammirare opere di straordinaria bellezza. E’ la famosa Cappella del Principe di Sansevero. Il fascino, il mistero del luogo e delle opere mi ha spinto a dare forma, con la scrittura, alle emozioni provate.
Alla ricerca storica si è aggiunta la fantasia subito seguita dall’ironia e, con queste compagne di viaggio, ecco prodotto un racconto che ha l’obiettivo di fissare nella mente ricordi particolari e affascinanti.
Dedicato a un amico fraterno e a quanti affrontano la malattia con fede, fiducia e forza.
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Il Principe, le ancelle e gli scatti proibiti
Ammirare un’opera d’arte suscita sempre fascino ed emozione. Generalmente affrontiamo viaggi, ci prepariamo anche rivedendo i vissuti culturali o ricercando nuove conoscenze, oggi facilmente raggiungibili con la complicità della rete. Finalmente entriamo in un luogo preciso, un museo, una chiesa, con la curiosità e lo spirito giusto per dedicare attenzione alle opere e ricevere, in cambio, sensazioni di bellezza e appagamento sensoriale. Le emozioni sembrano toccare le corde di un’arpa dal suono celestiale, quando per caso, magari discutendo di cose frivoli, gustando un gelato o una sfogliatella, passeggiando per strade ricche di voci, suoni, profumi di gastronomia, tra ali di vetrine e bancarelle colme di creazioni di esperti artigiani, amuleti, presepi, statuine natalizie sacre e profane, entriamo, quasi per caso, in un edificio dove, e, non lo avresti mai immaginato, sono custodite le opere più affascinanti e misteriose che si possano vedere a Napoli.


Con un gruppo di amici cari, che sino a pochi minuti prima discutevano animosamente di crollo del mercato immobiliare, scandali politici, sanità malata, corruzione nella vita pubblica, tagli alla spesa sociale, malgoverno e cattiva gestione del denaro, entro, quasi per caso, in un edificio situato nel cuore del centro storico di Napoli. Il silenzio occupava improvvisamente il posto delle parole. Siamo nella Cappella Sansevero, detta anche della Pietatella, un’unica navata rettangolare con quattro archi di ampio raggio per lato e un breve presbiterio realizzato su un gradone di fondo. Ammiriamo stupiti le opere scultoree e pittoriche in essa contenute. Traditi dall’assenza della guida turistica, pur con congruo anticipo richiesta e assicurata, osservati dagli occhi truci e attenti di custodi, meglio forse dire gendarmi, superiori per numero a quello dei visitatori, tentiamo, senza molto successo, di far tornare alla mente le nozioni di storia dell’arte barocca da troppo tempo sepolte.
La presenza nel gruppo di qualcuno vicino al contesto culturale del luogo rende i visitatori più pronti a recepire sensazioni emotive positive e a fantasticare.  Provo la sensazione che il silenzio si materializzi e generi un ologramma. Un uomo in livrea, con passo elegante giunge in soccorso, si avvicina e mi conduce accanto alle opere marmoree per spiegare il valore artistico e il significato simbolico. Lo riconosco dal ritratto che, nonostante il cattivo stato di conservazione, sormonta la lapide tombale. E’ Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero, l’artefice della realizzazione della Cappella che stavamo ammirando. Espone subito la leggenda della Chiesa di Santa Maria della Pietà, ricordando l’improvvisa comparsa di un ritratto della Beata Vergine dopo il crollo del muro che cingeva la dimora della nobile famiglia Sangro, detta anche Sansevero. Il muro era crollato contestualmente al passaggio di un detenuto che, ingiustamente accusato, rivolgeva preghiere alla Madonna mentre era condotto in carcere.
Giovan Francesco Paolo di Sangro principe di Sansevero, decise di edificare una Cappella in onore del sacro dipinto, sia per grazia ricevuta di guarigione dopo una grave malattia, sia per purificare un tragico avvenimento avvenuto nella sua casa. Nel 1590 il Principe di Venosa, Gesualdo, aveva ucciso la moglie Maria d’Avalos e il suo amante Fabrizio Carafa. I lavori, più volte sospesi anche per gravi problemi economici del Principe e dei suoi successori, furono ripresi definitivamente nel 1744, grazie all’intervento di Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero che, spinto dall’orgoglio dinastico realizzò, con creatività barocca, un mausoleo e un tempio iniziatico.
In un luogo dove l’idea sembra trasformarsi in materia l’Attenzione pare uscire dal corpo, assume le spoglie di una giovane donna dall’aspetto austero e dal volto saggio e deciso, saluta la nobile guida e si posa su un blocco di marmo posto quasi al centro della Cappella, invitando i presenti ad ammirare un’opera di assoluta bellezza e dai dettagli molto ben fatti. E’ un Cristo morto, disteso tra due cuscini, ricoperto da un velo tanto fine e trasparente da non sembrare di marmo ma di un delicato tessuto. La trasparenza del velo non nasconde il sudore della morte, le ferite sul costato, sulle mani e sui piedi, esiti delle torture e dei chiodi della crocifissione; sul volto i segni della sofferenza. E’ il Cristo Velato, opera scolpita in un unico blocco di marmo da Giuseppe Sanmartino nel 1753, tanto affascinante da suscitare stupore e ammirazione nel celebre e più famoso Antonio Canova.

Nella Cappella non esiste solo il Cristo Velato. Pregevoli sono altre statue marmoree, la Pudicizia Velata e il Disinganno, poste dietro la scultura del Sanmartino rispettivamente a sinistra e a destra di chi guarda. La prima, creata dallo scultore Antonio Corradini nel 1752, è dedicata alla madre del Principe, Cecilia Gaetani d’Aragona, morta in giovanissima età a ventitré anni, un anno dopo la nascita, 1710, di Raimondo, la seconda, realizzata da Francesco Queiro nel 1753-1754, al padre Antonio.  La Pudicizia, detta Velata perché coperta da un velo che lascia solo scoperte le mani e i calzari sorge su un piedistallo impreziosito da un bassorilievo, il “noli me tangere” raffigurante Cristo risorto che compare a Maddalena. Il Disinganno, conosciuto anche come la Liberazione dall’errore, raffigura il passaggio dal buio alla luce.
Sono opere che rappresentano gli opposti, un’antitesi come le costruzioni poetiche di Dante Alighieri. La madre avvolta in un velo aderente al corpo è appoggiata a una lapide spezzata, simbolo della giovane vita perduta. Il padre, dissoluto e libertino rompe la rete che lo avvolge per avvicinarsi alla fede, simboleggiata da un angelo che gli porta aiuto. E’ la redenzione del Principe Antonio che, pentitosi della vita depravata, aveva ucciso anche il padre di una giovane sedotta, abbraccia la fede e muore cristianamente in convento.
Il Principe Raimondo ci conduce accanto ai marmi che, nel progetto della Cappella, erano destinati al suo mausoleo, altro mistero del luogo, storica sede della celebrazione del proprio rito funebre, ma non dell’effettiva sepoltura, il cui luogo è ancora sconosciuto. Il corpo del VII Principe di Sangro, morto il 22 marzo del 1771 forse vittima, secondo leggenda, dei suoi stessi esperimenti scientifici, non è stato mai ritrovato. La prima impressione è di sobrietà ma un esame più attento evidenzia l’esternazione austera delle glorie militari e scientifiche. Raimondo, fondatore e Gran Maestro della Massoneria nel Regno di Napoli non era il solito nobile che amava circondarsi delle frivolezze e dei privilegi del rango. Letterato, autore di pubblicazioni di scienza, arte, filosofia, stratega militare, valoroso comandante del Reggimento Capitanata che a Velletri fermò le truppe degli Asburgo in marcia per la conquista di Napoli, inventore, esperto della medicina senza essere medico, profondo conoscitore delle tradizioni precolombiane, cultore di tutte le scienze, è, soprattutto, un grande alchimista. L’iscrizione sulla lastra marmorea della tomba lo definisce “uomo straordinario predisposto a tutte le cose che osava intraprendere … celebre indagatore dei più reconditi misteri della Natura”. Tra le opere letterarie il trattato “Addestramento della fanteria” pubblicato nel 1747, apprezzato da Federico II di Prussia, e la “Lettera Apologetica” nel 1750. Quest’opera rappresenta un vero capolavoro letterario per forma, tecnica di stampa innovativa in quegli anni con quattro colori nella stessa pagina, e per i contenuti. La raffigurazione dei “nodi degli Incas” nasconde i messaggi dell’illuminismo nascente. Attraverso artifici retorici la Lettera Apologetica celebra l’origine del mondo, dell’uomo e della scrittura profana.
Non sfuggì alla Chiesa e all’Inquisizione il significato criptico dell’opera, la gloria del libero pensiero, bandiera dell’illuminismo radicale. La pubblicazione fu messa, nel 1752, all’indice dei libri proibiti e solo una supplica al Papa Benedetto XIV gli evitò, nel 1754, l’incriminazione e una condanna che poteva prevedere anche la morte. Le cronache del tempo a lui riportano l’invenzione del tessuto impermeabile, del lume a luce eterna, del cannone leggero e portatile, antenato del moderno bazuca e della stampa a colori. Da buon napoletano non gli mancava l’umorismo. La teatrale trovata della carrozza anfibia non era altro che una zattera trainata da cavalli di sughero. Il cocchio era visto spesso “correre” nelle acque del golfo di Napoli.
Terminato il giro della Cappella, forse un primo viaggio, la nostra guida ci conduce nella cava sotterranea. Due custodi guardano con  attenzione gli ospiti che scendono una scala a chiocciola non per proteggerli ma per urlare e forse qualcos’altro nel caso che i visitatori sfoderassero le macchine fotografiche o le videocamere dalle custodie. In due nicchie due scheletri, un uomo e una donna, con ben in evidenza il sistema cardiocircolatorio. Improvvisamente una seconda figura femminile, più giovane della prima, dallo sguardo vivace e penetrante m’invita a osservare e studiare le “macchine anatomiche”. E’ facile riconoscerla. Accanto a me era comparsa la Curiosità, l’amica mia sincera che da sempre mi accompagna negli studi e nella professione. Uno sguardo d’intensa e leggo l’invito a presentarmi all’illustre guida. Un cenno di saluto e il Principe mi porge la mano che tocco in sintonia con il luogo. Un sorriso e subito mi rivolge poche e precise domande pertinenti al cuore e alla circolazione. Il principe ascolta con attenzione e dall’anatomia, a lui conosciuta nel dettaglio, si passa alla fisiologia, alle patologie, ai farmaci, alle recenti tecniche interventiste, all’applicazione degli ultrasuoni. Sembrava affascinato dall’apprendere che oggi è possibile studiare l’apparato cardiocircolatorio senza attendere il riscontro sul cadavere. Un sorriso quando gli parlo dell’ipertensione arteriosa e del colesterolo che ostruisce le arterie, forse ne era a conoscenza. Alla nuova richiesta di precisazioni mi soffermo sulla distinzione tra colesterolo buono, HDL, e quello cattivo, LDL, e osservando un eccesso ponderale, tipico della sindrome polimetabolica, gli comunico che se avesse avuto la possibilità, ai suoi tempi di dosare, trattare l’aumento del colesterolo ematico e della pressione arteriosa, di seguire una dieta associata all’esercizio fisico, sarebbe vissuto qualche anno in più.  Avverto pian piano la sensazione di dialogare con un uomo colto e raffinato, dai modi eleganti, che ha sete di conoscenza.  La curiosità era tanta e diventava reciproca ma, a buon ragione, mi trattengo e nulla gli chiedo sulla veridicità delle leggende concernenti le macchine anatomiche. Mi ero reso conto di essere in un luogo ricco di arte e bellezza. Dialogavo con un uomo di grande cultura, che ai tempi d’oggi avrebbe avuto un posto di rilievo nella comunità scientifica, non con un ciarlatano sanguinario. Solo il pettegolezzo e l’ignoranza del popolino avevano favorito lo sviluppo di macabre leggende.
Risaliamo nella Cappella, sede al tempo dei romani di un tempio dedicato al culto egizio e chiedo alla guida di illustrarmi la simbologia del luogo.   La Pudicizia Velata, inchino alla riservatezza e all’umiltà della madre, insieme al Disinganno rappresenta l’allegoria del viaggio iniziatico di Iside, la luna, che raccoglie i pezzi del corpo smembrato di Osiride, il sole. Si ricompone la tradizione fatta a pezzi per raggiungere, attraverso la visibilità, la conoscenza, unico mezzo per arrivare all’edificazione dei “libri di pietra”, allora i templi, più recentemente le cattedrali. L’uomo si libera della rete, l’ignoranza, e raggiunge la verità. Raimondo di Sangro m’invita ad ammirare la volta a botte, la Gloria del Paradiso, affrescata da Francesco Maria Russo. I dipinti sono disposti secondo la struttura di un tempio massonico. Sorprendente è la bellezza degli affreschi, grazie ai colori originali creati con elementi particolari per l’epoca e prodotti, in laboratorio, con formule alchemiche che lo stesso Principe, con orgoglio, si vanta di aver inventato.
La disposizione delle statue marmoree nella navata è particolare e nasconde un significato allegorico.  Lo scultore Antonio Corradini nel 1749 era giunto a Napoli, chiamato direttamente dal Principe Raimondo. Il Corradini, famoso per le opere realizzate alla corte di Vienna, era anch’esso massone e insieme al principe realizzò i bozzetti e la disposizione delle statue, specificata, dallo stesso Principe di Sansevero, non modificabile nel testamento. Morto Corradini il suo successore Francesco Queirolo si attenne scrupolosamente al progetto originario. Basta dare una rotazione di 90°, l’angolo della squadra ed ecco manifestarsi la disposizione delle cariche come nel tempio massonico. I due angeli, il Decoro e l’Amor Divino, rappresentano i sorveglianti, il Principe Cecco di Sangro il copritore interno. Le statue sono dodici, il numero della completezza, dodici come i mesi dell’anno, gli apostoli, i segni astrologici, le stelle della bandiera europea. Allegoria anche per il Cristo Velato, resurrezione, non sepolcro. Il velo, tanto perfetto da sembrar vero, è luce e verità ritrovata.
Soddisfatta la mia curiosità, il Principe Raimondo parla dei personali “guai” con papa Benedetto XIV dopo la pubblicazione della Lettera Apologetica nel 1750, del difficile rapporto con l’altro consigliere di corte Bernardo Tanucci, della stima con Carlo di Borbone, talmente tollerante verso la Massoneria napoletana da salvare dal carcere, forse anche dal patibolo, tutti gli iscritti.  Era bastata una pubblica confessione per ottenere l’assoluzione.  L’aver elencato i nomi dei fratelli, nobili e burocrati di corte, il rendere manifesto il rituale non erano stati atti di delazione ma tentativi, in questo caso ben riusciti, di convincere Carlo di Borbone, primo re di Napoli dopo una lunga serie di viceré, che nessuna congiura era stata mai ordita contro la corona. Ottenne anche il perdono da papa Benedetto XIV, nonostante la bolla di condanna.  Nessuna magia, nessun mistero, solo l’elevazione dell’uomo a Dio. Alchimia come investigazione scientifica della materia e dei suoi principi. La Massoneria napoletana annoverava, tra gli iniziati, l’elite culturale e scientifica del tempo, con l’obiettivo dell’edificazione dell’uomo perfetto attraverso il cemento del pensiero, la squadra dell’anima, il compasso della mente. Aprendo il tempio Raimondo di Sangro aveva anticipato di molti secoli la moderna visione della Libera Muratoria.
Ricorda l’esperienza del carcere, vissuta non come ignominia ma come calvario per la rinascita. Traspare pragmatismo quando mi confida che, sommerso dalla valanga di cambiali e debiti, ma ben deciso a terminare la Cappella, aveva obbligato il figlio Vincenzo a un matrimonio d’interesse. Il fine giustificava i mezzi. Tristezza e nostalgia per aver visto l’illuminato Carlo di Borbone, incoronato re di Spagna, lasciare Napoli nel 1759 e passare il regno al giovane figlio Ferdinando IV, ignorante e rozzo.
L’aver creato un rapporto di comunione intellettuale mi spinge a chiedergli del velo del Cristo. Volevo conoscere quanta verità ci fosse nella leggenda. Non mi risponde, mi lancia un complice sorriso, forse legge nel mio pensiero la voglia di uno scatto fotografico proibito e si pone davanti  ai custodi. Compare una nuova ancella, di statura più bassa e più giovane delle consorelle, dal volto furbo e intelligente e dallo sguardo sornione e invitante. E’ la Complicità.

“Dal Sepolcro del Cardinale Rainaldo Brancacci.  Chiesa di Sant’Angelo al Nilo Napoli.
Opera di Donatello e Michelozzo databile 1426-1428”

Da grande stratega, qual era stato in vita, il Principe, solo con lo sguardo, ordina alle tre ancelle di schierarsi davanti ai custodi per impedire la visione di alcune opere scultoree.  Punta il bastone nel centro ideale della navata e spunta un raggio di luce la cui visione solo a me è concessa. E’ il flash giusto per la mia camera. Sfodero la macchina fotografica e come in un film western due rapidi colpi, scatti che vanno a segno ed ecco le foto proibite, il Cristo velato e Giovan Francesco Paolo di Sangro.

 

La Complicità si avvicina e mi tocca la mano.  Valuto il gesto, un invito e richiedo al Principe, questa volta in maniera più diretta, se, come dice la leggenda, la realizzazione del velo sia un frutto dei suoi studi alchemici. Non ricevo risposta, non è il caso di insistere.

Un gesto di ringraziamento, un inchino di saluto e vedo la mia guida scomparire tra le opere marmoree, seguito dall’incedere leggiadro e sensuale delle tre ancelle, Attenzione, Curiosità, Complicità. Non saranno forse Liberté, Fraternité, Egalité, mi domando improvvisamente. Lascio quel luogo affascinante, non più misterioso e nella mente compare una nuova riflessione. Il Principe mi aveva fatto compiere i tre viaggi, ingresso, discesa, risalita.  Ero entrato ignorante uscivo acculturato, l’apprendista era diventato maestro, la pietra da ruvida levigata. La forza e il magnetismo che il luogo mi avevano trasmesso non dovevano cessare improvvisamente ma perdurare nel tempo. Le emozioni dovevano essere fissate nella mente. Quale modo migliore, quale doveroso ringraziamento se non quello di dare forma ai ricordi con la scrittura, magari aiutato da tre nuove ancelle, Storia, Fantasia, Ironia.
Esco dalla Cappella con animo leggero, con la sensazione di aver già visitato quel luogo, magari in un’altra vita in compagnia di una donna, il cui fascino mi aveva distratto, allora, dall’ammirare quei capolavori. Raggiungo gli amici che si erano soffermati a commentare una nicchia votiva dedicata per strada a “San Maradona”.

Un giovane passeggia con una bella e procace ragazza. Indossa una maglietta con la scritta “Dio creò la Padania poi accortosi dell’errore, inventò la nebbia”. Sorrido, l’umorismo partenopeo aveva colpito ancora. Il gruppo si ricompatta, Angelo, Mario e Roberto riprendono a discutere di politica e religione con competenza e veemenza. Tutto sembrava essere ritornato normale quando un uomo bruno dall’età non definibile, in evidente sovrappeso, con l’andatura da far ricordare quella del papero, con le mani e la bocca unte di olio, forse aveva da poco mangiato un pezzo di pizza, si avvicina. Sono il prof. …. Era la guida che invano avevamo atteso prima della visita alla Cappella Sansevero.

Osservo meglio e l’attenzione ricade su un’orribile cravatta, dove i volti grigi e non gialli dei Simpson avevano occupato il posto di righe o pallini. L’uomo è lontano anni luce dal mitico prof. Bellavista che, passeggiando per i vicoli di Napoli con portieri titolari, sostituti, aspiranti, illustrava le opere d’arte e acculturava gli astanti.


A Napoli gli orari degli appuntamenti sono relativi, c’è sempre traffico, bisogna affrontare e risolvere problemi improvvisi. Accettiamo le giustificazioni, non ne facciamo un dramma, siamo per definizione tolleranti. Quando il nostro pittoresco professore apprende che abbiamo già visitato la Cappella Sansevero e apprezzato “da soli” le opere, con stupore esclama: “Ma come avete fatto senza una guida”. Gli sguardi s’incrociano, i sorrisi si fondono. Gli rispondo abbozzando, con colorito accento in perfetto stile partenopeo, “Professò, ce sime arrangiate”…. e io più di tutti perché avrei portato a casa due foto proibite.  Grazie di tutto Principe

Bari 9 dicembre 2012                              Riccardo Guglielmi

Carte tante, tempo poco: costi amministrativi alti. Preoccupante segnale di Monti

Carte tante, tempo poco: costi amministrativi alti.
Preoccupante segnale di Monti
di Riccardo Guglielmi

Bari, 7 dicembre 2012
L’attività amministrativa sanitaria negli U.S.A. costa troppo e i medici hanno meno tempo da dedicare ai pazienti. Queste sono le conclusioni della ricerca del dott. D. Cutler e dei suoi collaboratori recentemente pubblicate nella rivista New England Journal of  Medicine.
Ogni medico americano impiega più di quarantatre minuti al giorno del proprio lavoro per una serie di adempimenti amministrativi, piani di cura, autorizzazioni alle procedure sanitarie, codifica delle attività cliniche e obblighi contabili per i rimborsi.  Questa quantità di tempo, sottratta all’assistenza e alla cura dei pazienti, è uno degli aspetti più frustranti della moderna medicina. I soli costi amministrativi della sanità negli U.S.A. si aggirano sui 350 miliardi di dollari l’anno, il doppio di quanto è speso per le malattie cardiovascolari e il triplo per le patologie oncologiche.  Si possono e si devono ridurre tali voci di spesa con una maggiore semplificazione delle procedure amministrative, con il capillare impiego dell’informatica e con la possibilità che i flussi di dati possano integrarsi tra loro grazie a database comuni in tutti gli stati…….

Automatizzazione, standardizzazione e flessibilità sono i rimedi per ridurre i tempi del data-entry, aumentare la produttività, ridurre le spese e migliorare la qualità del lavoro. Naturalmente nessuna differenza tra pubblico e privato. Bisogna ridurre la divergenza tra componente sanitaria e amministrativa in termini di approccio alla registrazione, alla raccolta e all’elaborazione dei dati.
I sistemi sanitari di tutto i paesi consumano ogni giorno un numero sempre maggiore di risorse. Non potranno essere accettate procedure diagnostiche e terapeutiche inappropriate. Sono necessari nuovi indicatori di appropriatezza prescrittiva.  Maggiori informazioni cliniche per far meno uso di tecnologia. In sanità qualsiasi novità tecnologica, a differenza dell’industria, non abbassa i costi, anzi li aumenta.
In Italia la situazione non è da meno anzi sembra, secondo visione ed esperienza personale, più drammatica. Medici di base e ospedalieri spendono più dei quarantatre minuti giornalieri dei colleghi americani per le attività amministrative. Ogni giorno una nuova norma, anche con differenze tra regione e regione. Note sui farmaci, piani terapeutici, vincoli, segnalazioni via internet, elaborazione dati, invio certificati, compilazione di schede aggiuntive alla tradizionale cartella clinica sono diventati adempimenti obbligatori nella pratica professionale. La mancata informatizzazione che, quando presente, è spesso inefficace, sottrae sempre maggiore tempo da destinare all’assistenza, favorendo medicina difensiva e maggiore rischio clinico. E’ proprio di pochi giorni orsono il secondo avvertimento del Presidente del Consiglio. Il nostro Sistema Sanitario Nazionale o cambia rotta, dotandosi di nuove regole di finanziamento e di adattamenti per meno sprechi, o, inevitabilmente, sarà a rischio crak a breve.
Facciamo tesoro di questa ricerca americana. I medici e gli utenti italiani invocano meno burocrazia, meno politica, meno potere amministrativo e più efficienza. La possibilità di semplificare la complessità amministrativa è molto ampia. I medici vogliono fare i medici, destinando più tempo per la cura del malato e meno per le scartoffie.

Il cuore potrebbe ripararsi con stesso meccanismo di pesci e salamadre

Annuncio rivoluzionario su “Nature”
Il cuore potrebbe ripararsi con stesso meccanismo di pesci e salamadre
di Riccardo Guglielmi

Bari, 7 dicembre 2012
A lezione da pesci e salamandre per curare il cuore malato
Nel futuro il nostro cuore, compromesso da malattie ed età, sarà “riparato” da microRna, con lo stesso meccanismo di pesci e salamandre.
Sono le conclusioni, pubblicate su “Nature”, di una lunga ricerca italiana coordinata Mauro Giacca, direttore dell’Icgeb, (Centro internazionale per l’ingegneria genetica e le biotecnologie) di Trieste, in collaborazione con il Centro cardiovascolare dell’Azienda ospedaliera universitaria cittadina.
Molecole di materiale genetico, microRna, scoperte dai ricercatori italiani, risvegliano nelle cellule cardiache, i cardiomiocti, per esempio dopo un infarto, il processo di riparazione dell’organo compromesso. E’ la riattivazione di una funzione persa alla nascita, nel corso dell’evoluzione, nei mammiferi, ma conservata nei pesci e nelle salamandre. Nella vita embrionale questi microRna sono attivi per la replicazione e la crescita delle cellule cardiache, la formazione e lo sviluppo del cuore. La loro espressione si spegne immediatamente dopo il parto.
La somministrazione di questi frammenti di materiale genetico o di nuovi farmaci, con le stesse proprietà, che nel futuro potrebbero essere prodotti, rimetterà in moto il processo riparativo e la replicazione dei cardiomiociti, senza bisogno di ricorrere al trapianto di cellule staminali. In natura salamandre e pesci sono capaci di “riparare” il cuore con lo stesso meccanismo.
Viviamo tempi di vera epidemia di malattie cardiovascolari. Nel mondo una persona su tre muore a causa di esse. Ogni anno 15 milioni di nuovi casi di scompenso cardiaco secondari, per l’80%, agli esiti di un infarto. Il 2% del Pil dei Paesi industrializzati va in fumo per ricoveri e cure.
Niente più esiti cicatriziali dopo un infarto, meno recidive, meno scompensi, meno angioplastiche, meno by-pass grazie a questa ricerca italiana.  Rendiamo il nostro cuore simile a quello dei pesci o delle salamandre e in cambio risparmio di risorse e maggiore qualità di vita per i cardiopatici.

Lo sport fa bene…ma il troppo sport può far male al cuore

E’ quanto affermato in uno studio eseguito da un gruppo di cardiologi del St. Luke’s American Heart Institute di Kansas City (Usa) e pubblicato sulla rivista scientifica ‘Heart’. Rischio ‘crack’ per il cuore se si corrono troppe maratone in un solo anno.
Esercizio fisico e sport determinano indiscutibili vantaggi sulla psiche e sul corpo. Migliora il tono osseo e muscolare, aumenta l’elasticità, la contrattilità cardiaca e la capacità respiratoria. Diminuisce il peso e la pressione arteriosa, se è associata una corretta alimentazione. Aumenta il tono dell’umore e l’autostima. Anche il sistema immunitario riceve vantaggi e di conseguenza maggiore resistenza alle malattie infettive e tumorali.
Tuttavia, come in tutte le cose, l’esagerazione crea danni, in modo particolare, sull’apparato cardiocircolatorio, la cui compromissione, spesso, può avere effetti drammatici.
Il cuore nelle prime fasi risponde con un aumento dei battiti cardiaci e con maggiore consumo di ossigeno, in seguito, se gli allenamenti sono eseguiti in modo corretto, la frequenza diminuisce e aumenta la contrattilità. Se si praticano allenamenti esagerati per intensità e durata, il cuore, come tutti i muscoli, aumenta lo spessore delle pareti e poi si dilata. Questi due ultimi adattamenti sono negativi per l’individuo. La pressione arteriosa aumenta, la contrattilità diminuisce, l’insufficiente apporto di sangue e ossigeno ai tessuti compromette la funzione degli organi, il sistema nervoso neurovegetativo si sbilancia. Insorgono le alterazioni del ritmo, le aritmie, alcune delle quali possono essere fatali. Sono avvertiti gli atleti fondisti amatoriali che con frequenze anche settimanali, si sottopongono notevoli sforzi in gare di lunga distanza, 20 e 40 Km.
Ogni cuore è diverso e “si adatta” in modo molto personale secondo età, l’alimentazione, la diversità di genere ma soprattutto secondo la genetica. Gli sforzi intensi e gli allenamenti esagerati possono aggravare, specie nei bambini delle piccole alterazioni congenite dell’apparato cardiovascolare, mentre negli adulti sono le malattie coronariche, infarto o angina, che presentano un rapporto diretto negativo con il troppo esercizio fisico. Quando si supera la frequenza cardiaca massimale, facilmente calcolabile con una semplice formula, il cuore scoppia. Controlliamo sempre il battito cardiaco e impariamo a sentire i messaggi che il nostro corpo ci manda, affaticamento, affanno, cardiopalmo, sudorazione.
In conclusione il cuore è progettato per sopportare solo sforzi di breve intensità. Sforzi intensi e duraturi favoriscono l’invecchiamento precoce dell’apparato cardiovascolare.  Facciamo sport a tutte le età ma con sicurezza, dopo una buona visita medica e sotto l’attento e professionale controllo di esperti seri e preparati. E per gli appassionati di maratona (42,195 km) … solo due l’anno.
Bari 5 dicembre 2012

Pillole e farmaci senza fantasia

Gli italiani preferiscono chiamare i propri farmaci con un nome. Per anni la nostra fantasia si è adoperata per etichettare un medicamento con un nome di semplice identificazione. Sinonimi di forza, spesso in latino, per i vitaminici, vezzeggiativi per gli antibiotici, diminuitivi o additivi per i dosaggi ridotti o potenziati ne hanno favorito il commercio e la vendita. Nomi tanto fantasiosi e facili da ricordare, usati spesso per l’autoprescrizione o il “fai da te”. E’ facile l’accostamento al “chiamami per nome e sarò il tuo farmaco”. Viviamo in recessione e anche la fantasia ne fa le spese.
Una recente ricerca del Censis, realizzata per Farmindustria sull’impatto della prescrizione con principio attivo sulla qualità delle cure, dimostra che il 57,6% degli italiani riconosce i farmaci che assume dal nome commerciale, solo il 7,6% tramite il nome del principio attivo e quasi il 35% attraverso entrambi. Vi è poca differenza percentuale tra giovani e anziani, genere, o nord e sud. Il nome commerciale è un importante fattore indicativo, anche se esiste la consapevolezza dell’esistenza di un farmaco equivalente, identificato con il nome della molecola, di costo inferiore. Gli anziani sono più informati sull’esistenza di farmaci a costo minore.
La certezza dell’identificazione induce il cittadino a pagare una piccola differenza per il farmaco “griffato”. Il 45% degli italiani, specie l’anziano o l’utente in pessimo stato di salute, preferisce pagare un ticket maggiorato e ricevere un farmaco di marca piuttosto che quello fornito dal Servizio Sanitario, con lo stesso principio attivo, ma a un costo inferiore. Oltre al nome, un importante aspetto identificativo è dato dalla forma e dai colori della confezione o della pillola.
Nel 30% del campione in generale e nel 39% degli anziani, è alto anche il rischio di confusione in caso di consegna, in farmacia, di un medicinale contenente lo stesso principio attivo ma con una confezione diversa o con un nome differente.
Rimane alta la fiducia del paziente nei riguardi del medico. Il cambiamento è accettato nel 61% se proposto dal medico di fiducia, mentre scende al 16% se il proponente è il farmacista, mentre il 22% è contrario a qualsiasi cambiamento. E’ il medico, l’unico garante del cambiamento.
Il 77,4% degli italiani dichiara di essere a conoscenza che il medico di famiglia deve indicare sulla ricetta il nome del principio attivo. Quasi il 63% è ben informato che, in caso di patologia cronica, il curante può continuare a prescrivere il farmaco con il nome commerciale. Sono più informati gli anziani rispetto ai giovani, le donne rispetto agli uomini. Il 66,7% dichiara di aver già sperimentato la modalità della prescrizione con principio attivo.
E’ avvertita da tutti un’eccessiva pressione economica, voluta dall’alto, sulle scelte prescrittive a causa delle manovre di bilancio. Oltre il 47% ritiene l’attività prescrittiva dei medici negli ultimi dodici – diciotto mesi, condizionata dal fattore economico, il 36,4% la ritiene inalterata, il 6,2% diminuita, mentre il 10% non ha opinioni al riguardo. D’altro canto, per il 77%, esiste l’esigenza di ridurre la spesa pubblica per i farmaci e il 61% ha avvertito un aumento della spesa di tasca propria per l’acquisto di farmaci.
L’uniformità della prescrizione, oltre alla perdita di posti di lavoro per gli addetti al settore, cozza con la consuetudine e la personalizzazione del rapporto dei cittadini con il farmaco. Siamo da sempre abituati a prendere una medicina, spesso quotidiana, resa riconoscibile dal nome commerciale, dalla confezione, dalla forma. Anche il colore ha la sua importanza. Infatti, basta dire la pillola blu e tutti capiscono di che si tratta.
Bari 2 dicembre 2012