Tutti gli articoli di Riccardo Guglielmi

Anestesia al pubblico, rianimazione al privato

La piccola clinica del cuore dal 25 marzo corrente anno è diventata un grande ospedale multidisciplinare

A due mesi dalle votazioni amministrative la Clinica Mater Dei di Bari diventa alternativa agli ospedali pubblici, Di Venere, San Paolo, Policlinico. Cardiologia, neurologia, cardiochirurgia, medicina interna, ortopedia, emodinamica e a breve anche pronto soccorso, sono le multi specialità che, in un contesto alberghiero, offriranno i servizi richiesti da un’utenza offesa per anni da lunghe liste di attesa, architetture fatiscenti e tecnologie sorpassate. Certo sembra un dono piovuto dal cielo, ma oltre lo spot elettorale cosa nasconde quest’operazione?

La sanità pugliese è reduce da anni di gravosi piani di rientro. Sono stati chiusi e ridimensionati ospedali pubblici che offrivano assistenza a grandi bacini territoriali; solo per la provincia di Bari, Conversano, Monopoli, Putignano, Bitonto e Corato. Al Policlinico e al Di Venere, i Direttori Generali sopprimono Unità Operative semplici e complesse. Da una parte tagli al pubblico, dall’altra apertura e potenziamento di strutture private solo sulla carta, ma, di fatto, mantenute dall’accreditamento pubblico, cioè dalle tasse addizionali imposte ai cittadini pugliesi. Amministratori politici, funzionari e consulenti, medici riciclati come burocrati in strutture sanitarie regionali, con le loro scelte programmatiche rendono la sanità pubblica poco efficiente ed efficace. Turnover bloccato, lungaggini burocratiche, flessibilità inesistente, veti incrociati alle giuste attese di carriera per i medici pubblici capaci, organici inadeguati soggetti a carichi di lavoro intensi, mortificano da anni le professionalità, ritenute anche alte dall’utenza, di tutti gli operatori sanitari.

Viste queste premesse, è lecito porsi alcune domande:

1. Da dove provengono i fondi di finanziamento per quest’operazione?

2. Saranno ancora validi i tetti di spesa per le strutture accreditate?

3. Come e da chi sarà disciplinato l’accesso dell’utenza?

4. Saranno rispettate le norme che regolano i conflitti d’interesse e le incompatibilità per i medici dipendenti in servizio o collocati in pensione?

5. Esisterà un controllo per l’appropriatezza dei ricoveri e delle procedure diagnostiche?

6. Saranno evitate le sperequazioni retributive tra medici sottopagati a scapito di pochi con retribuzioni da capogiro tanto da includerli nelle “Top ten” dei più alti contribuenti nazionali?

E’ un ritorno a un passato non tanto remoto, quando un imprenditore locale, con l’aiuto della classe politica collusa e corrotta, aveva creato una fitta rete di cliniche accreditate mantenute in vita solo con il denaro pubblico. La critica fine a se stessa non è mai costruttiva senza le proposte per la risoluzione dei problemi. Rendiamo la struttura pubblica più flessibile nelle dinamiche del lavoro in entrata e uscita, per esempio con assunzioni di supporto finanziate con contratti a progetto. Incoraggiamo il lavoro per obiettivi e valorizziamo le professionalità tenute di proposito narcotizzate. Dobbiamo dare risposte alle giuste attese dell’utenza con la verifica dei criteri di appropriatezza prescrittiva e diagnostica. Liberiamo gli operatori sanitari da ingabbiamenti burocratici che servono a sottrarre tempo all’assistenza, alle procedure diagnostiche, affiancando al lavoro “burocratico” dei medici figure professionali amministrative (ora un medico per dimettere un solo paziente ha bisogno di due ore per assolvere gli obblighi previsti). Diamo al privato accreditato le stesse regole del pubblico in un regime di libera concorrenza.

Come medico del Servizio Sanitario Nazionale mi sforzo nel quotidiano di evitare l’affossamento dell’ospedale pubblico che credo debba sempre offrire al cittadino utente l’eccellenza diagnostica e terapeutica. La speranza, che è l’ultima a morire, è non vedere politiche sanitarie che sottopongono ad anestesia il pubblico e, al contrario, rianimano il privato accreditato.

Bari 01 aprile 2014

Ridurre le riospedalizzazioni. Oggi si può, domani si deve

Dobbiamo prendere esempio dagli Stati Uniti che negli ultimi mesi del 2012 hanno iniziato un ambizioso progetto, il Medicare, che ha come obiettivo la riduzione del tasso di riospedalizzazione.
La maggiore richiesta di nuovo ricovero si è osservata per i pazienti dimessi dopo infarto miocardico, scompenso cardiaco e polmonite. Discutibile sarà, secondo alcuni, la penalizzazione economica, pari all’1% del rimborso, per gli ospedali con alta riospedalizzazione, ma un deterrente economico, se giustamente applicato, diventa un buon freno a una gestione poco professionale delle risorse economiche destinate alla sanità pubblica.
Se applicato in Italia nella sua interezza, solleverebbe numerose critiche e controversie. Due sono gli ordini di considerazioni o domande: la riospedalizzazione è forse legata alla precocità della dimissione o alla gravità della patologia di base che determina esiti e complicanze?
Nei nostri ospedali il paziente non è mai precocemente dimesso. Si rispettano le linee guida riguardanti i tempi di degenza per patologia. Purtroppo la cronicità e la gravità delle malattie determinano una sempre maggiore richiesta di salute, percepita dall’utente solo con il ricovero in ospedale, che se pur criticato per la scarsa umanizzazione, è considerato l’unica sede dove poter ricevere durante la degenza, ora breve rispetto agli anni passati, cure appropriate ed eseguire accertamenti diagnostici senza altre spese aggiuntive, con facilità di accesso, tempi di esecuzione rapidi e livelli alti di professionalità degli operatori. I pazienti a maggior rischio di riospedalizzazione sono quelli non solo con malattie più gravi, ma anche con condizioni socio-economiche più disagiate. Manca, purtroppo, un valido supporto sociale o di servizi territoriali efficaci che possano prendere in carico la complessità e le disabilità dei pazienti trattati.
La dimissione ospedaliera necessita, anche in presenza di un quadro clinico di particolare gravità, vedi l’infarto del miocardio, di una maggiore pianificazione e coordinamento delle cure future. Un Sistema sanitario efficiente deve garantire un corretto “ritorno a casa” per rendere efficace la convalescenza, trampolino di lancio per la ripresa sociale e lavorativa. E’ fondamentale la pianificazione dei tempi e dei modi per i controlli con protocolli condivisi specifici per la diagnostica e la terapia. Piccoli accorgimenti per evitare duplicazioni d’indagini diagnostiche, vero spreco di denaro pubblico, messe in essere, nel timore di contenziosi medico-legali, per medicina difensiva.
Un territorio efficiente e ben integrato con l’ospedale, riducendo la riospedalizzazione, non è più un promotore di spesa, ma diventa un fautore di risparmio.  Nel futuro le risorse destinate alla nostra sanità, a tutt’oggi sempre minori rispetto a quelle messe a disposizione da Germania, Francia e Usa, saranno sempre più esigue. Dobbiamo avere il buon senso, per evitare la distruzione del nostro Sistema Sanitario, modello che molti stati ci invidiano, di saper amministrare quelle poche risorse con l’intelligenza e la saggezza del “buon padre di famiglia”
Bari 24 Aprile 2013

Servizio Sanitario Nazionale: niente nozze con i fichi secchi

Quando un uomo ha il coraggio di esprimere le proprie idee, in maniera in parte diretta e senza ipocrisie di facciata, attira critiche e generiche esternazioni di contrarietà anche in coloro che, pur condividendo nella sostanza quell’idea, si arroccano su posizioni rigide, dettate dalla convenienza e da uno pseudo perbenismo. L’attuale Presidente del Consiglio ha da poche ore affermato che “La sostenibilità del nostro Sistema sanitario nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantita se non si individuano nuove modalità di finanziamento”. E’ il parere di un economista che, anche in un’area dove etica, solidarietà, umanizzazione e in definitiva il “fornire aiuto” devono prevalere su entrate e uscite, pone l’accento sulla ricerca di nuovi modi di finanziamento, per impedire l’implosione, nei prossimi anni, di un sistema strategico per un’utenza informata e consapevole dei propri diritti, in quanto, finanziando con il prelievo fiscale un servizio, pretende assistenza e cure migliori.
Non per corporativismo, ma possiamo affermare che il nostro SSN rappresenta una risorsa importante per il nostro paese. Dobbiamo saper difendere e conservare un patrimonio che molti paesi ci invidiano e cercano di copiare, per esempio gli USA. Quello che manca è la volontà di razionalizzare servizi e prestazioni. Non tagli lineari, vedi riduzioni di posti letto, accorpamento di Unità Complesse, chiusura di ospedali ma controllo analitico della gestione con l’obiettivo di ridurre gli sprechi, ce ne sono tanti, ridistribuire le risorse, incoraggiare i comportamenti virtuosi. Misure risultate vane, come il taglio del numero dei direttori delle Unità complesse. E’ bene specificare che la retribuzione stipendiale di un primario, che, come tutti sanno, è gravato da immense responsabilità, non è certo paragonabile a quella di un dirigente dell’industria o della finanza. L’aziendalizzazione di un Ente Sanitario passa attraverso l’ammodernamento delle tecnologie, il miglioramento della qualità del servizio, in definitiva un aumento dell’attrazione che permette di convogliare, verso quella struttura, un’utenza giorno per giorno più attenta. Come il cittadino sceglie un’autovettura straniera con tecnologia più alta e costo più basso di quella apparentemente prodotta in casa nostra, così sceglierà di farsi curare nell’ospedale più efficiente per ottenere cure efficaci.  Esiste una pluralità di spesa per lo stesso approvvigionamento, un’identica siringa, magari della stessa marca, presenta una consistente diversità di costo tra regione e regione.
Al taglio deve seguire la riconversione dei posti letto, meno degenza per acuti e più per i pazienti cronici, con creazione di strutture territoriali flessibili dedicate al follow-up (controllo nel tempo) di patologie ad alta prevalenza epidemiologica, cardiache e oncologiche. Bisogna evitare il ricorso alla medicina difensiva che, come scientificamente osservato, incide per tredici miliardi l’anno sul capitolo di spesa. Per fare questo dobbiamo valorizzare l’esperienza del medico e mettere in condizione tutti gli operatori di lavorare con tranquillità, senza la paura del costoso e umiliante contenzioso medico-legale. Le soluzioni più idonee per creare un maggior clima di giustizia e serenità sono semplici e logiche: protocolli scritti e condivisi, legislazione più mirata per la malpractice, assicurazione rischio-professionale a carico del datore di lavoro, divieto di pubblicità accattivanti e una più attenta analisi iniziale, da parte della magistratura, per evitare esposti o denunce a esclusivo scopo risarcitorio.
Non meno importante è la scelta dei quadri dirigenti apicali. Oltre alle doti umane e all’indiscussa professionalità scientifica e tecnica, bisogna dare spazio al medico attento agli aspetti economici nella gestione dell’attività assistenziale. Basta con il nepotismo, l’appartenenza o la fedeltà politica, la corruzione. Valutiamo i curriculum dei canditati, reclamiamo la responsabilità della scelta in caso di chiamate dirette, proponiamo contratti veramente a termine per le posizioni apicali, in definitiva diamo più voce al merito.
Con la dichiarazione del Presidente Monti “il dado è tratto” e, nonostante le smentite o gli addolcimenti prodotti dai consulenti della comunicazione, la tematica è stata evidenziata, indipendentemente dalle soluzioni proposte. La ricerca di nuove forme di finanziamento é da non far coincidere con l’aumento della pressione fiscale, ma da un saggio controllo e da una vera razionalizzazione delle uscite. Un prodotto di qualità ha costi di esercizio alti. Non possiamo pensare di celebrare le nozze offrendo agli invitati solo fichi secchi.

La medicina difensiva nella pratica clinica:impatto sociale ed economico

Secondo una storica definizione dell’Office of Technology Assessment, U.S. Congress, 1994, la Medicina Difensiva si verifica quando “i medici prescrivono test, procedure diagnostiche o visite, oppure evitano pazienti o trattamenti ad alto rischio”.

L’esponenziale aumento del contenzioso medico-legale, registrato nell’ultimo decennio, induce sempre più frequentemente i medici a una maggiore prescrizione di accertamenti clinici e strumentali finalizzati alla propria difesa legale, piuttosto che alla tutela della salute del paziente. Oltre 2/3 degli specialisti ammettono di ricorrere alla medicina difensiva per timore di denunce con conseguente inappropriatezza delle prescrizioni. Importanti sono le implicazioni economiche, sociali ed etiche. Scopo dell’atteggiamentodifensivo é quello di evitare costose richieste di risarcimento per sospetta negligenza.

Tale comportamento ha determinato negli ultimi anni una crescita imponente dei costiassicurativi e della spesa sanitaria, quest’ultima incrementata non solo per l’aumento dellerichieste di ricovero e di esami specialistici e strumentali, ma anche per l’aumento delleprescrizioni, sempre più costose, di farmaci.

 

Nell’ultimo anno si è stimato che tale porzione di spesa sanitaria nazionale abbia raggiuntoi 13 miliardi di euro, di cui 150 milioni per la sola farmaceutica, rappresentando pertantoun argomento di particolare interesse, in funzione della spending review necessaria alsuperamento dell’attuale crisi economica. Il 53% dei medici dichiara di prescriverefarmaci per ragioni di medicina difensiva e, mediamente, tali prescrizioni sono il 13% circa di tutto il monte prescrittivo, rappresentando circa il 10-17% della spesa farmaceutica globale annua.

 

Il 75,6% dei medici, prevalentemente di fascia d’età tra i trentacinque e quarantaquattro anni, dichiara di prescrivere visite specialistiche, esami strumentali e di laboratorio per ragioni di medicina difensiva e, mediamente, tali prescrizioni rappresentano il 22,6% circa di tutte le richieste. Anche sui ricoveri la medicina difensiva si appropria di un buon11%.

Le possibili soluzioni del problema non si limitano a una sempre più meditataapplicazione delle “linee guida” o dei protocolli. E’ necessario un diretto interventolegislativo per definire correttamente l’atto medico e il rinnovamento dei programmi diformazione psicologica, filosofica e storica del medico, favorendo così un migliore rapporto medico paziente, secondo i principi del codice deontologico.

Fonte: dal seminario di cardiologia forense. XXII Congresso Nazionale ANCE. Taormina 13 ottobre 2012

Cuore e sport

Sabato 14 aprile 2012 il cittadino italiano comune, la comunità scientifica e tutti gli operatori del mondo dello sport, calcio in particolare, tra incredulità e stupore, hanno percepito quanto sia imprevedibile, insufficiente ed effimera la sicurezza nell’ambito della pratica dell’attività sportiva. Tutti si sono chiesti come un giovane, un ragazzo di soli venticinque anni, un atleta professionista che riceve giudizi positivi d’idoneità nei numerosi controlli medici, cada al suolo e muore, in diretta televisiva, sebbene i soccorsi prestati.
Passato lo stupore, ascoltati i numerosi pareri di qualificati medici intervistati, specialisti in cardiologia e medicina dello sport, è necessario fare delle riflessioni affinché non risulti vana la morte di un ragazzo e che, quando saranno spente le luci della ribalta mediatica, non si cada nell’oblio o peggio nella rassegnazione della fatalità o della cattiva sorte.
La morte improvvisa, per la maggioranza dei casi secondaria a grave aritmia, tachicardia o fibrillazione ventricolare, è un’evenienza frequente, statisticamente ridotta in modo significativo negli ultimi decenni grazie all’invio precoce nell’ospedale, alle unità di terapia intensiva cardiologica, alle tecniche di rianimazione e di emodinamica interventista. Ridotta la mortalità intraospedaliera molto resta da fare nella fase precedente al ricovero e sul territorio.
Una morte improvvisa di origine cardiaca è anche mentalmente accettabile nell’adulto, in coloro che hanno fattori di rischio coronarico, ma mai sarà accettata nel giovane ed in modo particolare in chi pratica attività sportiva agonistica. Lo sportivo è, per luogo comune, identificabile in un soggetto esente da patologie, e specie nel mondo del calcio professionistico, rappresenta un’icona di bellezza, forza e successo. Nello sportivo vediamo solo gli aspetti positivi che spesso invidiamo.  Il vero tifoso è portato a mettere sul podio l’atleta e lo vuole vedere sempre forte e vittorioso. Non ci scandalizziamo della corruzione del politico mentre condanniamo tutte le forme di corruzione degli operatori sportivi. Accettiamo la malattia o l’evento avverso nella vita normale, mai nello sport.
L’Italia dal 1982 si è dotata di una legislazione per l’attribuzione dell’idoneità sportiva per chi pratica attività sportiva agonistica. Esiste un obbligo di certificazione, con validità annuale, che prevede protocolli diagnostici specifici per il tipo di sport praticato. I presidenti delle società sportive sono tenuti all’obbligo di far sottoporre gli atleti, all’atto del tesseramento, ai giudizi d’idoneità. Oltre ai medici certificatori le società devono affidare la salute degli atleti ai medici sociali. Questa potrebbe già essere la prima criticità. Mentre i medici certificatori sono esclusivamente specialisti in Medicina dello sport, molti dei quali sono supportati anche da cardiologi esperti in cardiologia dello sport, i medici delle società non sono necessariamente specialisti del settore. Purtroppo, specie al Sud, l’inosservanza di tale obbligatorietà rappresenta circa il 50% dei tesserati nelle società sportive.
Se la legislazione è rigorosa nel campo dell’agonismo, nella grande fascia degli amatoriali, dei non agonisti, che rappresenta la maggioranza, la certificazione, quando richiesta, è affidata al medico di famiglia o di fiducia. Tale certificazione è, nella maggioranza dei casi, rilasciata senza l’esecuzione di alcuna diagnostica di base, per esempio, un elettrocardiogramma. L’esercizio fisico ha permesso una riduzione della morte improvvisa di circa il 90% tra gli atleti, mentre è rimasta invariata, un caso su mille, in chi non pratica sport. L’introduzione dell’obbligo dell’esecuzione dell’ECG ha portato una riduzione del 50% di morte improvvisa nei giovani.  In un mondo di ipertecnologia basta la visita clinica e l’elettrocardiografia? Questa è stato l’argomento di numerosi dibattici. La risposta è che sono indispensabili in un’applicazione di massa.
L’anamnesi è importantissima, specie quella familiare, per mettere a fuoco casi di morti improvvise o in giovane età, nei parenti diretti. L’anamnesi personale per la malattia reumatica. Un esame clinico accurato può evidenziare patologie sistemiche nelle quali si associano malformazioni cardiache, per esempio la sindrome di Marfan o di Ehler-Danlos. Un’accurata auscultazione cardiaca permette di diagnosticare patologie a carico delle strutture valvolari. Anche il sospetto di miocarditi o pericarditi non sfugge al clinico esperto. Il semplice ECG di base ci indirizza in malattie che sono causa di morte improvvisa come la preeccitazione ventricolare e le canalopatie, tipo la sindrome di Brugada, la sindrome del QT lungo o del QT corto. Il Prof. Richard Langhendorf, negli anni settanta, faceva ricerca, scriveva libri e diagnosticava aritmie complesse leggendo l’elettrocardiogramma di base, servendosi di un righello e di un compasso.
La ricerca in questi anni ha fatto grandi progressi, grazie all’intelligenza ed alle capacità dei nostri ricercatori, nonostante le sempre continue riduzioni di fondi. Ma questo non basta. Dobbiamo investire nella ricerca e supportare adeguatamente i nostri validi ricercatori se vogliamo la ripresa dello stato. Cultura come volano di crescita. Nel nostro genoma, il nostro patrimonio genetico, sono scritte le cause delle malattie cardiovascolari che spesso sono alla base della morte improvvisa. La cardiologia è nella fase della ricerca ultrastrutturale e molecolare. Dobbiamo studiare i geni, gli alleli, i cromosomi umani. I test genetici devono essere più accessibili all’utenza potenziando i laboratori di genetica clinica. In Puglia non siamo messi beni. Esistono laboratori che sono centri di eccellenza per la mucoviscidosi, per le patologie emocoagulative, per la trisomia 21, ma non per la genetica cardiovascolare. In casi sospetti di Brugada o di altra canalopatie, di Displasia aritmogena a genitori giustamente preoccupati non resta altro che il solito viaggio della speranza a Milano, Pavia, Padova. La ricerca indirizzata alla genetica ed alla biodiversità permetterà di portare alla luce nuove patologie che sono spesso la causa di eventi avversi in cuori apparentemente sani.
Un corretto controllo di massa deve far indirizzare all’esecuzione di altre indagini di secondo livello. L’ecocardiogramma deve essere eseguito nei bambini e nei giovani. Almeno una volta nei primi dieci anni deve essere eseguito un ecocardiogramma, esame semplice ed incruento, per evidenziare patologie come il prolasso della mitrale, l’aorta biscuspide o la miocardiopatia ipertrofica. In chi è più avanti nell’età, negli amatoriali con più di trentacinque anni, sempre test da sforzo massimale al cicloergometro, indipendentemente se trattasi di sport agonistico o non agonistico.
Sarebbe auspicabile un maggior numero di centri pubblici di Medicina dello sport, ma l’attuale congiuntura economica non credo possa favorire scelte politiche in tal senso. Allora dovendo fare i conti con le scarse risorse potenziamo almeno quelli esistenti. E’ indispensabile la presenza dello specialista cardiologo che abbia competenza specifica. Il cardiologo dello sport deve avere esperienza clinica per assicurare l’appropriatezza prescrittiva delle indagini di approfondimento, senza mai cadere nella trappola della medicina difensiva. La competenza del cardiologo dello sport eviterà l’aumento dei costi di gestione e di esercizio delle unità operative, permetterà di avvicinarsi il più possibile ad uno standard di qualità, ai fini dell’emissione di un giudizio corretto circa lo stato di salute e dell’idoneità del cittadino atleta. Portare la certificazione a due anni in chi, per altri motivi, ha eseguito indagini cardiologiche di secondo livello, potrebbe far ridurre i costi sociali della visita di idoneità sportiva gratuita sino ai diciotto anni di età. Un ulteriore margine di qualità potrebbe essere dato dalla firma congiunta del cardiologo e del medico dello sport nel giudizio di idoneità.
L’attività sportiva da anni è considerata un farmaco, non a caso una task force formata dalle più importanti società scientifiche di cardiologia e medicina dello sport, ha pubblicato nel 2010 i protocolli della prescrizione dell’esercizio fisico nelle diverse patologie cardiovascolari e, come per tutti i farmaci, la prescrizione deve prevedere una giusta e personalizzata posologia.
L’eccesso può dare effetti tossici. Potremmo spiegarci anche così l’evento avverso da sport rapportandoci a quanto succede dopo un infarto del miocardio.
Il cuore colpito da infarto, cioè da necrosi di tessuto muscolare, comincia già dai primi giorni a rimodellarsi, adattando la sua geometria alla cicatrice connettivale che sostituisce il muscolo distrutto. Carichi di lavoro intensi, predisposizione individuale, ecco l’importanza della ricerca genetica e molecolare, alterando la geometria delle camere cardiache, gli spessori delle pareti e forse favorendo anche il processo di apoptosi, cioè di autodistruzione cellulare, possono creare delle zone “grilletto”, responsabili dell’insorgenza delle aritmie. Anche questa potrebbe essere causa di eventi avversi nello sport.
Qualcuno potrebbe chiedersi se anche l’infarto è una malattia genetica. Non è dimostrata l’esistenza di uno o più geni che sono responsabili direttamente dell’infarto. Esiste la predisposizione familiare, ma la genetica è responsabile della presenza dei fattori di rischio cardiovascolare tipo l’ipercolesterolemia etero ed omozigote, l’ipertensione arteriosa essenziale, le alterazioni delle lipoproteine e del fibrinogeno.
Altra questione è l’implementazione dell’uso del defibrillatore. La defibrillazione preospedaliera dovrà avere maggiore implementazione. Un defibrillatore semiautomatico deve essere presente nei luoghi affollati, dal cinema al supermercato ed in particolare, in tutte le sedi, dove si svolgono le gare e le manifestazioni sportive. L’80% delle morti improvvise, in ambito sportivo avviene durante la gara e non nell’allenamento, a dimostrazione del ruolo dello stress da competizione nella genesi delle aritmie pericolose. Una semplice manovra servirebbe a salvare la vita di un giovane. La defibrillazione non è detto che debba essere eseguita esclusivamente da un medico. Addestriamo un sempre maggior numero di operatori laici ed implementiamo anche il concetto di formazione ed addestramento periodico. I soggetti abilitati alla defibrillazione devono obbligatoriamente addestrarsi continuamente, magari frequentando le terapie intensive cardiologiche, proprio come i militari e gli operatori delle forze dell’ordine che periodicamente devono frequentare il poligono.  Si eviterebbero così le tensioni, i momenti di panico che un arresto cardiaco può determinare in chi è presente. La simulazione accademica non sarà mai uguale alla realtà. Cultura e formazione per il buon esito della catena della sopravvivenza in caso di arresto cardiaco.
Saggia è stata la decisione, non importa se da taluni contestata, di sospendere per una giornata le gare dei campionati di calcio. E’ servita per riflettere, per stimolare la classe medica a un maggiore rigore nei controlli, ai politici per investire nella ricerca e nella prevenzione, ai genitori dei piccoli atleti e a tutti coloro che praticano attività sportiva, indipendentemente da essere agonisti o non, ad una maggiore attenzione per la propria salute anche quando il Servizio Sanitario Nazionale non offre la gratuità di alcune prestazioni mediche. Solo così la morte che ha strappato la vita ad un giovane calciatore professionista il 14 aprile del 2012 non sarà stata vana.